Marta, Maria e Lazzaro sono di Betania; il significato del nome dato a questo villaggio è particolare: “casa del povero”, “casa dell’afflitto”; c’è un’altra Betania, quella oltre il Giordano, dove Giovanni il Battista riconosce in Gesù il Figlio di Dio (Gv 1, 34). Qui invece viene riconosciuto da Marta (Gv 11, 27) “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Lazzaro è in grosse difficoltà; è “infermo”. Rappresenta l’umanità che a volte vacilla; a volte cade; infine muore. Ma Gesù può rialzare. Lazzaro, nel Vangelo di Giovanni, è l’unica persona che “miracolata” da Gesù, ha un nome proprio; oltretutto è la prima persona che esce dal sepolcro per seguire il pastore buono, che chiama ciascuna pecora per nome. Anche il suo nome ha un significato interessante: “Dio aiuta”; nella morte, come nella nascita; nessuno se la cava da solo. Nessuno nasce senza madre; nessuno muore senza che ci sia un Padre che lo vuole accogliere.
“Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà” dice Gesù a Maria. Egli è oggettivamente vita e luce; luce che splende nelle tenebre, vita che risveglia dalla morte. L’ultima scelta di Gesù, prima della risurrezione di Lazzaro, è stata quella di donare luce agli occhi del cieco nato e di donare sapienza alla sua mente e al suo cuore; così mostra la verità su Dio e sull’uomo. Davanti all’esito finale della nostra esistenza ci dona una profonda libertà: la risurrezione di Lazzaro ci apre gli occhi sulla morte; è ipoteca buona per ognuna delle nostre vite. È necessario guardare negli occhi la morte e scrutare il mistero, per riuscire a spendere bene la nostra esistenza. Altrimenti rischiamo sempre di fuggire da tutto ciò che sappiamo essere comunque ineludibile.
È vero che, poi, Lazzaro morirà ancora. Ma il suo ritorno alla vita indica che la morte non è padrona definitiva dell’uomo; essa è invece passaggio ad una vita nuova, perenne, caratterizzata dall’amore; una vita in comunione con Gesù, con il Padre, con i fratelli; così il Signore ci giudicherà come “servi buoni e fedeli”. C’è vita e vita. Ci sono esistenze morte, proprie di chi, schiavo della paura di perdere la vita, si chiude nell’egoismo per trattenerla; e c’è una morte che ridona la vita, perché abbiamo amato. Giovanni stesso, nella sua prima lettera (1Gv 3,14) ci conferma che “chi non ama rimane nella morte”. Mi ritorna in mente una riflessione sulla foglia, che spesso utilizzo come pensiero finale nelle omelie dei funerali. La foglia, ingiallita, nell’autunno si stacca dall’albero. Mentre cade, sembra danzare con serenità. Ha la consapevolezza di aver donato molto all’albero; ha la certezza che l’amore donato non può morire nel cuore di chi ha amato.
Don Peppino