La quarta domenica dopo Pasqua, che abbiamo celebrato domenica scorsa, è sempre dedicata alla giornata mondiale delle vocazioni. Sempre il vangelo è tratto da Giovanni 10: il discorso di Gesù che svolge la metafora del buon pastore. La magica intesa tra pecore e pastore offre il modello per pensare l’intesa tra Gesù e i discepoli. Le pecore riconoscono la voce del pastore, prima di intendere le parole; tanto basta per seguirlo; trovano così la strada verso il pascolo e mediante il cammino recepiscono il messaggio che il pastore rivolge loro molto più che mediante le parole.
Alla voce, prima che alla parola, è assegnato il compito di far risuonare la “vocazione”. Quando nacque la giornata dedicata alla preghiera per le vocazioni, cinquant’anni fa, il riferimento era alle vocazioni sacerdotali e religiose, dette di “speciale consacrazione”. Venne poi il Concilio e precisò che chiamati sono tutti i cristiani; questo è il senso del battesimo, inteso non solo come “battesimo dei bambini”, ma come cammino battesimale della vita intera. Siamo sempre più in un tempo in cui s’impone l’urgenza di una scelta battesimale adulta, che potremmo chiamare scelta per “vocazione”. Ognuno di noi è chiamato ad una “speciale” vocazione e consacrazione!
Chiamati sono addirittura tutti gli uomini; soltanto attraverso il «nome» con il quale la «voce» li chiama possono trovare la loro strada, e la loro identità. Il nome infatti è l’espressione concisa dell’identità, e soltanto grazie a tale identità ciascuno giunge alla coscienza di sé. Quest’idea dell’identità si è affacciata sulla scena soltanto in epoca recente. Un tempo non si parlava di identità. Oggi se ne parla molto; soprattutto molto si parla di “crisi d’identità”. I processi di identificazione conoscono grandi difficoltà.
Il nostro tempo è segnato da enormi difficoltà nei processi d’identificazione. Diventa urgente, quindi, parlare di identità e anche di vocazione. Soltanto a condizione di conoscere una vocazione, di udire il «nome» con il quale siamo chiamati da sempre, possiamo venire a capo di noi stessi. Il nome con il quale siamo chiamati inizialmente è solo un suono indistinto, ma inconfondibile. L’efficienza di quel nome, la sua attitudine a orientare il nostro cammino, non è legata inizialmente alla comprensione del significato. Basta il suono della voce, e subito il nome diventa familiare e orienta il cammino. Il cammino darà poi un contenuto al nome.
Ci aiuta a intendere questa esperienza elementare l’attenzione ai bambini. Il fatto che il piccolo ancora non parli e non capisca le parole di altri, non impedisce alla mamma di parlargli, e anche molto. Perché parla tanto? Il bambino non capisce le parole, certo, ma ode la voce e subito comprende che la voce si rivolge a lui. L’esperienza di quella voce genera la certezza d’essere atteso, amato, oggetto di una cura infallibile che durerà per sempre. La voce sola, senza ancora le parole, genera nel bambino le certezze più fondamentali. Genera addirittura la certezza di una sua identità, ignota, ma garantita dall’attesa di altri per lui. Vale in tal senso per tutti i figli di Adamo quel che Gesù dice ai discepoli: soltanto «se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli, conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv.8,31).
Per conoscere la verità già iscritta nell’esperienza infantile occorre il cammino effettivo. Per questo motivo può accadere anche che il singolo viva rincorrendo una chiamata innegabile, ma indecifrabile. Chi ci conosce davvero è: «Il buon pastore...conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui». All’origine della metafora, sta questo tratto sorprendente della relazione tra pecore e pastore: basta che le pecore odano la «voce» del pastore, perché subito sappiano da che parte volgere i loro passi, senza avere bisogno di alzare il capo da terra. Non è necessario vedere il pastore in faccia; basta il suono della sua voce. Qualche cosa di simile accade nella relazione tra il cristiano e il suo Maestro: non abbiamo bisogno di vedere Gesù in faccia. Possiamo riconoscerne la presenza attraverso l’ascolto della voce. La voce è il vangelo innanzi tutto: esso entra subito in noi, risuona come noto e familiare; appare convincente e più sicuro di tutte le altre voci che risuonano intorno a noi. La voce del buon pastore è affidabile perché non fugge, ma «dà la vita per le pecore». La verità della parola del vangelo appare subito persuasiva al suo primo risuonare nei nostri cuori; per un attimo almeno è subito ascoltata; trova però la sua conferma suprema soltanto nel momento del pericolo, quando tutti gli altri fuggono e il buon pastore rimane: «Io offro la mia vita, nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso».
Offre la propria vita, nel momento in cui, addensandosi intorno a lui una nube di ostilità e di violenza, sceglie di non fuggire. In quel momento egli attesta che «la grazia vale più della vita» (Sal.63). L’amore del Padre è così affidabile e sicuro, che affidandosi ad esso si possa addirittura perdere la propria vita. Ci conceda il buon Pastore di udire più chiara la sua voce nel momento in cui «viene il lupo» e intorno a noi tutti sembrano fuggire. Ci mostri in quel momento che la sua voce può effettivamente rassicurare il cuore, darci un nome, indicarci il cammino, anche senza che ci soccorra alcuna sua immagine visibile davanti agli occhi!
Don Luigi