L'acqua unita al vino

L'acqua unita al vino

"Sia segno della nostra partecipazione alla vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana". Sono le parole che, nel rito romano, il sacerdote dice all'offertorio nel momento in cui versa le poche gocce d'acqua nel calice del vino. Questo è il primo atteggiamento spirituale che dobbiamo avere quando ci rechiamo alla Messa domenicale: non siamo noi che andiamo a fare comunione con Gesù, ma è Lui che viene a fare comunione con noi. Tutto questo per ristabilire le priorità dell'azione di Dio nella vita della fede. Ne consegue lo stupore che deve animare l'animo cristiano che riconosce la precedenza dell'azione di Dio: noi, "povera argilla plasmata dalle sue mani", fatti come contenitori del suo spirito, aperti alla sua presenza e alla sua grazia.

Ne consegue un secondo atteggiamento: la gioia. Quando usciamo di casa per andare a Messa come posso esprimere questo sentimento "Vado a incontrare il mio Dio"? E se sulla mia strada potessi incontrare altri credenti come me? Perché non accordarmi con loro sul fare insieme il tragitto, esprimendo anche sul volto la contentezza che porto dentro di me? Perché non fermarmi sul piazzale della chiesa, prima e dopo la celebrazione, con i fratelli nella fede e testimoniare ciò che cambia la nostra vita di uomini? Perché non cantare "pleno corde" durante la celebrazione la felicità che deriva dall'amore che Dio mi mostra?

Siccome Dio è sempre rispettoso ed educato e non parla se parliamo noi, i silenzi che ci sono durante la celebrazione sono vissuti come da uno che si mette in ascolto della Parola di Dio o come un tempo che non so come riempire? "Non di solo pane vive l'uomo ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio". Atteggiamento essenziale è questo avere l'orecchio attento ad un Dio che speso sussurra al credente. "Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta!".

Dio, poi, è uno che capisce le cose più di quanto siamo capaci noi. La sobrietà deve essere una caratteristica della nostra preghiera. Lo raccomandava già il Signore Gesù, dicendo che non dobbiamo essere come gli Scribi e i Farisei che pensano di essere esauditi a forza di parole: Dio sa già di cosa hai bisogno; certe preghiere che sembrano sintesi di trattati di teologia o paiono volere suggerire a Dio le motivazioni del suo esaudirci non devono avere spazio nelle nostre liturgie. Un cuore da bambino, un cuore semplice che dice soltanto ciò di cui ha un bisogno essenziale, non rende la preghiera una invocazione infantile ma soltanto sincera.

Tutto questo ci rende una vera comunità che ha compreso che la fede non è un fatto solo personale, come spesso pensiamo; non riguarda soltanto me, ma un intero popolo di cui sono parte viva e attiva, con cui faccio comunione perché Gesù mi ha fatto capire che soltanto così "se due o tre sono riuniti nel mio nome, là sì sono io". E questo rende "missionaria" ogni celebrazione perché mi obbliga a "portare fuori" quel Signore che mi ha incontrato. Dobbiamo smettere di pensare soltanto al "mio" Signore e iniziare a pensare al "nostro".

Se viviamo la celebrazione domenicale con questi atteggiamenti allora dal popolo di Dio sale il vero ringraziamento, la vera Eucaristia che non potrà non rendere più gioioso il nostro volto e dare ai non credenti o non praticanti il desiderio di far parte di una comunità così serena e felice.

Celebrazioni, dunque, piene di umiltà, di gioia, di silenzio attento e ascolto devoto, di fraternità e desiderio di comunicare ad altri la fede saranno la vera lode che sale a Dio dal popolo che gli appartiene.

Don Felice