Al centro della celebrazione eucaristica della quarta domenica di Quaresima c’è il tema della luce; il cieco dalla nascita viene illuminato dall’incontro con il Signore Gesù, dalla sua attenzione agli ammalati desiderosi di guarigione. Il racconto diviene opportunità, per parecchie persone, di conoscere il Signore Gesù e di riflettere sulle sue parole e sulle sue scelte. Il testo, infatti, presenta le differenti reazioni alla guarigione del cieco nato, da parte di coloro che sono presenti. Sorge la domanda: ma tutti coloro che incontrano il cieco dalla nascita, che ha riacquistato la vista, sono mosse dalla ricerca della verità, oppure solamente dalla curiosità o da pregiudizi e astio nei confronti del Signore Gesù? Desiderano realmente vedere meglio e comprendere ciò che è avvenuto? L’evento della guarigione dell’uomo cieco dalla nascita che cosa cambia nel loro modo di vedere la realtà? Il ritrovamento della vista da parte di quell’uomo diventa giudizio sulla capacità di vedere da parte degli altri protagonisti del racconto; ma anche di noi che abbiamo ascoltato questo testo. “Gesù vide un uomo cieco dalla nascita” . Che cosa c’è all’inizio di questo grande miracolo? C’è lo sguardo di Gesù. Il Maestro non vede anzitutto un malato, ma un uomo. I discepoli non solo non vedono un uomo, ma, in un certo senso, non vedono neppure un cieco; identificano invece il problema che quella cecità evidenzia: “Rabbì, chi ha sbagliato, lui o i suoi genitori perché sia nato cieco?”. Non rivolgono neppure un saluto, una parola a quella persona che non vede. Gesù invece inizia la sua relazione con il cieco, parlandogli; per lui è un essere umano con cui confrontarsi. L’incontro, infatti, inizia con uno sguardo che non è inficiato da nessun pregiudizio. Gesù si pone positivamente di fronte all’uomo che soffre; non offre risposte teoriche; si interessa di lui. Di fronte alla sofferenza che intacca il corpo di una persona, Gesù non utilizza risposte teoriche; assume invece la concreta situazione che ha davanti a sè. Al cieco conferma che, anche nella sofferenza, si può assumere e narrare la misericordia e la benevolenza di Dio. Nei versetti dall’8 al 12 Gesù poi scompare. I passi e i sentimenti che accompagnano l’uomo che è stato guarito sono ora nelle sue mani. Deve scontrarsi con la realtà: una folla che non si capacita di quello che è avvenuto, i giudei che non vogliono credere al miracolo e fanno di tutto per screditare il Signore Gesù; i genitori che sono imbarazzati di fronte alle autorità giudaiche; sembra quasi che se ne lavino le mani: “Chiedetelo a lui; ha l’età; parlerà lui di sé”. Non c’è spazio per descrivere loro la sua guarigione; tutto sembra essere diventato decisamente complicato; le persone che conosceva e con cui aveva avuto rapporti, non sembrano gioire per il miracolo. Si evidenzia piuttosto la curiosità per ciò che è successo. Non alimentano lo stupore e la gioia rispetto al fatto che, l’uomo che conoscevano riesce ora a vedere. Quanto volte corriamo il rischio di non gioire del bene che incontriamo, anche inaspettatamente, di fronte a noi. Sappiamo cogliere il mutamento delle persone con cui spendiamo i passi quotidiani della nostra esistenza?Il cieco nato però ribadisce l’evidenza. Sa anche compiere dei passi decisivi verso la fede; verso l’affidamento totale a Gesù. Lo incontra di nuovo. Di per sé non sa di essere di fronte al Figlio di Dio. Ma neppure Gesù gli conferma che è di fronte, concretamente, a Colui che è stato mandato dal Padre sulla terra, subito dichiara la propria fede e lo adora. Ai farisei che si interrogano: “Siamo ciechi anche noi?” Gesù risponde che il problema vero non è la cecità, ma la presunzione di ritenersi nel giusto; questa durezza di cuore porta verso il peccato. Accettare lo sguardo di Gesù su di noi, significa imparare a vedere noi stessi nella verità. Apriamoci ad accogliere l’azione innovatrice del Signore Dio. Don Peppino
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Il salmo 118 descrive, a mio avviso con grande chiarezza, il percorso di vita di S. Giuseppe: “Beato l’uomo di integra condotta, che cammina nella legge del Signore. Beati chi è fedele ai suoi insegnamenti e lo cerca con tutto il cuore..., nella tua volontà è la mia gioia; mai dimenticherò la tua parola”. Per ogni persona la scelta fondamentale è quella di saper fiorire là dove il Signore lo ha piantato; è nell’esercizio del quotidiano che noi diamo qualità alla nostra esistenza. Giuseppe, di fronte a una proposta non facile, ha accolto la Parola del Signore nella sua vita e ha dato concretezza alle sue richieste. In lui la fedeltà si è evidenziata come un dono, come un servizio offerto all’umanità; certo la prova, la fatica, lo smarrimento non sono rimasti estranei alla sua esperienza; del resto non sarebbe significativa una fedeltà che si giocasse in assenza di problemi. Proprio Giuseppe, che si è lasciato affascinare dalla fedeltà assoluta del Signore Dio, può sostenere e confermare il nostro cammino di perseveranza. Lasciamoci guidare dalle Scritture e, in particolare, dal Vangelo di Luca. La presenza di Giuseppe nel terzo vangelo è discreta; è comunque sempre segnalata con particolare attenzione. È con la salita di Giuseppe dalla Galilea a Betlemme, nella città di Davide, insieme a Maria, per il censimento, che inizia il racconto della natività, nel chiaro intento di sottolineare che Gesù discende da Davide, la cui tribù avrebbe dato alla luce il Messia. Il ruolo del falegname di Nazaret appare fondamentale; pertanto, al culmine della manifestazione ai pastori nella notte di Betlemme, egli viene “ritratto” accanto a Maria e al Bambino: “Andarono... e trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino, adagiato nella mangiatoia” (Lc 2,16). Continuando il racconto dell’infanzia di Gesù, Luca presenta sempre Giuseppe insieme a Maria, come genitori (Lc 2, 27-41), “il padre e la madre” di Gesù (Lc 2, 33); “tuo padre e io” dice Maria a Gesù (Lc 2,47). Come tali, essi adempiono le prescrizioni della Legge, conducendo Gesù al Tempio prima per la circoncisione, quindi per la sua presentazione al Tempio quale primogenito maschio (Lc 2, 21- 22); poi, di nuovo per la Pasqua, con il figlio dodicenne (Lc 2,41-42). Ora, da un lato, Giuseppe condivide con Maria lo stupore, anzi l’incomprensione di fronte a un mistero che li supera (Lc 2,48- 50); dall’atro, Giuseppe, insieme a Maria, esercita l’autorità di genitore su quel figlio che, pur avendo Dio per Padre (Lc 2,49), resta loro sottomesso (Lc 2, 51). Questa profonda tensione che attraversa tutto il racconto viene a sciogliersi nella solenne genealogia di Gesù collocata da Luca all’inizio del ministero pubblico (Lc 3, 23-38). È una sintesi profonda, quella offerta da Luca, del ruolo fondamentale di Giuseppe nella vicenda di Gesù, e dunque nell’intera storia di salvezza; e ciò proprio nel porsi a servizio di quella duplice identità del figlio di Dio fatto uomo che è la radice stessa della nostra salvezza. Purché non se ne faccia motivo di scandalo, come avviene agli abitanti di Nazaret (“Non è costui il figlio di Giuseppe?” Lc 4,22); la si accolga invece con la stessa fiducia incondizionata, che Giuseppe incarna sempre. Il silenzio, la docilità, la mitezza di Giuseppe siano luce per le nostre scelte quotidiane. Anche il nostro cuore sarà invaso dalla pace che il Signore ha donato a chi ha fatto luce nella vita di Gesù.
Siamo arrivati all’ultimo passo del nostro cammino di Chiesa. Le caratteristiche che oggi analizziamo sono quelle della cattolicità e apostolicità. L’analisi viene fatta partendo da alcuni brani della Sacra Scrittura e da un’udienza di Papa Francesco. Cattolico = katà + òlos = secondo il tutto, secondo la pienezza Lettera ai Colossesi (Col 2, 9-12) È in Lui (=Gesù) che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate della pienezza di lui, che è il capo di ogni Principato e di ogni Potenza. In lui voi siete stati anche circoncisi non mediante una circoncisione fatta da mano d'uomo con la spogliazione del corpo di carne, ma con la circoncisione di Cristo: con lui sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. Vangelo secondo Matteo (Mt 15, 21-28) Partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: "Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio". Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: "Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!". Egli rispose: "Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d'Israele". Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: "Signore, aiutami!". Ed egli rispose: "Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini". "È vero, Signore - disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni". Allora Gesù le replicò: "Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri". E da quell'istante sua figlia fu guarita. Apostolico = apostello = inviare, mandare via Vangelo secondo Giovanni (Gv 19, 19-20; Gv 20, 19-23) Pilato compose anche l'iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: "Gesù il Nazareno, il re dei Giudei". Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco. La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: "Pace a voi!". Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: "Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi". Detto questo, soffiò e disse loro: "Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati". Dal Vangelo secondo Luca ( Lc 10, 1-6) Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: "La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: "Pace a questa casa!". Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Udienza di Papa Francesco: (17 settembre 2014) Che cosa comporta, per le nostre comunità e per ciascuno di noi, far parte di una Chiesa che è cattolica e apostolica? Anzitutto, significa prendersi a cuore la salvezza di tutta l’umanità, non sentirsi indifferenti o estranei di fronte alla sorte di tanti nostri fratelli, ma aperti e solidali verso di loro. Significa inoltre avere il senso della pienezza, della completezza, dell’armonia della vita cristiana, respingendo sempre le posizioni parziali, unilaterali, che ci chiudono in noi stessi.Far parte della Chiesa apostolica vuol dire essere consapevoli che la nostra fede è ancorata all’annuncio e alla testimonianza degli stessi Apostoli di Gesù, è ancorata là, è una lunga catena che viene di là; e perciò sentirsi sempre inviati, sentirsi mandati, in comunione con i successori degli Apostoli, ad annunciare, con il cuore pieno di gioia, Cristo e il suo amore a tutta l’umanità. E qui vorrei ricordare la vita eroica di tanti, tanti missionari e missionarie che hanno lasciato la loro patria per andare ad annunciare il Vangelo in altri Paesi, in altri Continenti. Mi diceva un Cardinale brasiliano che lavora abbastanza in Amazzonia, che quando lui va in un posto, in un paese o in una città dell’Amazzonia, va sempre al cimitero e lì vede le tombe di questi missionari, sacerdoti, fratelli, suore che sono andati a predicare il Vangelo: apostoli. E lui pensa: tutti questi possono essere canonizzati adesso, hanno lasciato tutto per annunciare Gesù Cristo. Rendiamo grazie al Signore perché la nostra Chiesa ha tanti missionari, ha avuto tante missionarie e ne ha bisogno di più ancora! Ringraziamo il Signore di questo. Forse fra tanti giovani, ragazzi e ragazze che sono qui, qualcuno ha voglia di diventare missionario: vada avanti! È bello questo, portare il Vangelo di Gesù. Che sia coraggioso e coraggiosa!
Dopo solo otto mesi dall’inizio del suo Pontificato, nel novembre del 2013, Papa Francesco scrive l’esortazione apostolica “Evangelii gaudium”. È una pietra miliare, un testo di riferimento fondamentale del Magistero di Papa Bergoglio. Mi viene da affermare, con discrezione, che coloro che non hanno approfondito questo scritto, conoscono solo parzialmente il pensiero teologico e pastorale di Papa Francesco. È un testo molto ricco, ampio nel contenuto, stimolante per la riflessione che propone; merita di essere letto integralmente. Dovendo parlare in un breve articolo, mi fermo su uno snodo fondamentale dell’intera Lettera Apostolica, là dove indica i quattro principi sapienziali. Il tempo è superiore allo spazio Ogni persona è chiamata a vivere in tensione tra il momento concreto che sta attraversando e la luce che proviene dall’orizzonte più ampio verso cui desidera dirigersi. Il presente non deve deluderci, non deve intristirci. È necessario operare oggi avendo chiare, nella mente e nel cuore, le finalità che sorreggono il percorso quotidiano che cerchiamo di promuovere. Operare a lunga scadenza non ci permette di fermarci di fronte alle concrete difficoltà che incontriamo nel quotidiano. Non è positivo lasciarci fermare dall’ossessione di risultati immediati che vogliamo raggiungere. Occorre dare priorità al tempo. Dare, invece, priorità allo spazio in cui si vive, nella ricerca di risolvere tutto e subito, intristisce i nostri passi. Papa Francesco ci indica una strada importante da percorrere: “Occorre impegnarci a iniziare processi di crescita piuttosto che rincorrere spazi da possedere”. Anche nel cammino di testimonianza ed evangelizzazione è necessario tenere presente l’orizzonte e promuovere concreti cammini possibili. L’unità prevale sul conflitto Ci sono pagine molto belle nel profeta Isaia che parlano di unità, di comunione, di universalismo. Nella promozione del dialogo occorre accogliere la prospettiva di pareri, a volte, molto diversi o comunque differenti dai nostri. Non bisogna ignorarli o procedere come se non ci fossero; d’altra parte non possiamo lascarci imprigionare dalla differenza di opinioni e di vedute. Il Signore ci conferma, in particolare, la bontà di un percorso che si configura nella sua indicazione: “Beati gli operatori di pace”. (Mt 5,9) Mons. Tonino Bello parlava di “convivialità delle differenze”. È necessario andare oltre la ragionevolezza e, a volte, la staticità del proprio parere, per cogliere la verità che ci può essere comunque nel pensiero di ogni nostro interlocutore. La realtà è più importante dell’idea Alla realtà si guarda con chiarezza, per coglierla nella sua verità e nella sua interezza; l’idea è, invece, il tentativo di elaborare passi adeguati per il futuro. Occorre promuovere “un dialogo costante, evitando, in particolare, che l’idea finisca per separarsi dalla realtà”. È necessario uno sguardo puntuale sul futuro, evitando, nello stesso tempo, che le ipotesi sul futuro, siano pensate come una realtà già presente. Il percorso promettente parte sempre da una chiara percezione della realtà in cui si vive; solo allora lo sguardo, pieno di speranza, può diventare un’opportunità e non un’evasione. Il tutto è superiore alla parte Una scelta importante è, senz’altro, quella di pensare alla dimensione globale in cui siamo inseriti; ci permette di non cadere in una vita trascinata avanti, giorno dopo giorno; una esistenza che non riesce ad allontanarsi dalla superficialità e dall’indifferenza. Non è pertanto positivo fantasticare, eludendo la fatica della ricerca quotidiana.Papa Francesco evidenzia che un atteggiamento negativo è proprio quello di chi ammira i “fuochi artificiali del mondo” e non si lascia, invece, interpellare dalla bellezza che ci circonda e che ci chiede di promuovere scelte intrise di grande amore.Diventa urgente apprezzare il bene che incrociamo, la terra fertile che ci hanno regalato coloro che si sono lasciati interpellare costantemente riguardo al bene da compiere e che, consapevolmente o meno, hanno dissodato il terreno su cui noi, oggi, poggiamo i nostri piedi.La gioia del Vangelo ci indica pagine concrete e promettenti. Don Peppino
“Gesù diceva ai Giudei che gli avevano creduto”. Questi giudei avevano apprezzato le sue parole; erano state convincenti; ma non credevano ancora in Lui; non volevano fidarsi e affidargli la loro esistenza. Si possono infatti accogliere le parole di Gesù su Dio. È una fede che sta iniziando a balenare nella propria vita, ma, se non fiorisce nell’adesione a una persona concreta, al Figlio di Dio, essa può risultare vana. Oltretutto per aderire a Gesù non basta dar credito alle sue parole; occorre “dimorare” nella sua Parola: “se voi dimorate nella mia parola”. La Parola è la casa dove il nostro cammino spirituale abita; “dimorare nella parola” significa ascoltarla, meditarla, viverla. “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. Dimorare nella Parola significa avere con essa quella familiarità che ci assimila ai pensieri e ai sentimenti del Signore Gesù; Lui ci aiuta a conoscerlo nella profondità delle sue scelte; ci aiuta a comprendere veramente chi è Lui e chi siamo noi. Si pone sulla strada della nostra vita e ci dona luce per conoscerlo, per amarlo, per volerci più bene. Del resto la verità è conosciuta solo da chi la vive e nella misura in cui la vive. La verità proposta da Gesù, il Figlio di Dio, ha l’obiettivo di aiutarci a rimanere liberi (Gal. 5,1 ss). È costante il pericolo di rimanere nella schiavitù. Come per Israele, uscito dall’Egitto, così anche per noi la libertà è minacciata dalle difficoltà e dalle prove del cammino; l’accoglienza della sua Parola dona luce, conforto e determinazione a coniugarla nella nostra esistenza. “Noi siamo stirpe di Abramo”. Per undici volte risuona il nome del Patriarca. È lui il primo uomo che ha dimorato nella Parola. Per questo si è fidato; si veda in Gn 18,1-10 l’episodio alle Querce di Mamre e quello del sacrificio di Isacco (Gn22,1-14). L’uomo è figlio di colui nella cui parola ripone fiducia. Gli ascoltatori di Gesù presumono di essere liberi perché discendono da Abramo. Non sono però suoi figli se non agiscono con la fiducia nel Padre che lui ha avuto. La vera libertà non è richiamare Abramo e le promesse che il Signore Dio gli ha fatto, ma essere come Gesù, in comunione profonda con il Padre. La parola verità è particolarmente cara all’evangelista Giovanni; viene utilizzata nel suo Vangelo venticinque volte; solo tre volte viene invece scritta da ognuno dei sinottici, Matteo, Marco e Luca. In particolare, per Giovanni la verità non è un’idea; è una persona concreta: Gesù di Nazareth. Egli, con ciò che compie e afferma, è la verità di ogni uomo; rivela sé come Figlio di Dio e conferma noi come suoi fratelli, anche noi figli di Dio. Dalla consapevolezza di questa verità nasce la scelta di plasmare, con libertà profonda, gli atteggiamenti quotidiani della nostra esistenza: liberi di compiere sempre scelte che danno spessore ai nostri giorni; mai asserviti allo spirito del male che ci allontana dal bene che possiamo, invece, gustare e testimoniare. Don Peppino
Continua la riflessione sul tema della Chiesa. La caratteristica che viene messa in luce questa settimana è il rapporto tra la santità e la condizione di peccato, caratteristiche queste che fanno parte del nostro essere uomini nella Chiesa. La Chiesa è creduta indefettibilmente santa. Infatti, Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato «il solo Santo», amò la Chiesa come sua sposa e diede sé stesso per essa, al fine di santificarla (cfr. Ef 5,25-26), l'ha unita a sé come suo corpo e l'ha riempita col dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che siano retti da essa, sono chiamati alla santità, secondo le parole dell'Apostolo: «Sì, ciò che Dio vuole è la vostra santificazione» (1 Ts 4,3; cfr. Ef 1,4). Orbene, questa santità della Chiesa costantemente si manifesta e si deve manifestare nei frutti della grazia che lo Spirito produce nei fedeli; si esprime in varie forme in ciascuno di quelli che tendono alla carità perfetta nella linea propria di vita ed edificano gli altri. (Lumen Gentium 39). É in verità la santità del Signore, che diviene presente e sceglie continuamente a contenere nella sua presenza anche e proprio, con amore paradossale, le mani sporche degli uomini. E’ santità, che risplende come santità di Cristo proprio nel peccato della chiesa...Non è forse vero che la chiesa si deve presentare come racchiusa in una comunione indivisibile con il peccato ed i peccatori, per prolungare storicamente questo destino del Signore e il suo aver portato tutti noi? Ed allora, in questa non santa santità della chiesa rispetto alla attesa umana del «puro» si manifesterebbe la nuova e vera santità dell’amore di Dio, la quale non si tiene in una nobile distanza del puro incontaminato, ma si confonde con lo sporco del mondo, per riuscire così a vincerlo. Si esprimerebbe così quella santità che, contrariamente a concezioni di purezza dell’antichità, è essenzialmente amore, e cioè intervento a favore dell’altro, corresponsabilità ed interessamento per l’altro, sostegno dell’altro, un amore quindi di redenzione». (Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, (267-268) A supporto di questa tematica riportiamo ora un passaggio di Papa Francesco annotato nella sua esortazione apostolica: “Gaudete et Exultate”, 49-50. Quelli che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, «in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico». Quando alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che con la grazia di Dio tutto è possibile, in fondo sono soliti trasmettere l’idea che tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che «non tutti possono tutto e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e «a chiedere quello che non puoi»; o a dire umilmente al Signore: «Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi». In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita. La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l’ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo. Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo. Quando Dio si rivolge ad Abramo gli dice: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1). Per poter essere perfetti, come a Lui piace, abbiamo bisogno di vivere umilmente alla sua presenza, avvolti nella sua gloria; abbiamo bisogno di camminare in unione con Lui riconoscendo il suo amore costante nella nostra vita. Occorre abbandonare la paura di questa presenza che ci può fare solo bene. È il Padre che ci ha dato la vita e ci ama tanto. Una volta che lo accettiamo e smettiamo di pensare la nostra esistenza senza di Lui, scompare l’angoscia della solitudine (cfr Sal 139,7). E se non poniamo più distanze tra noi e Dio e viviamo alla sua presenza, potremo permettergli di esaminare i nostri cuori per vedere se vanno per la retta via (cfr Sal 139,23-24) . Così conosceremo la volontà amabile e perfetta del Signore (cfr Rm 12,1-2) e lasceremo che Lui ci plasmi come un vasaio (cfr Is 29,16). Abbiamo detto tante volte che Dio abita in noi, ma è meglio dire che noi abitiamo in Lui, che Egli ci permette di vivere nella sua luce e nel suo amore. Egli è il nostro tempio: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita» (Sal 27,4). «E’ meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa» (Sal 84,11). In Lui veniamo santificati.
Rilancio qualche aspetto del messaggio del Papa: “Nessuno può salvarsi da solo. Ripartire dal Covid-19 per tracciare insieme sentieri di pace”, che ha scritto per la Giornata Mondiale della Pace dell’ 1/1/23 e che vi invito a leggere integralmente. UNA BREVE SINTESI DEL MESSAGGIO Una crisi senza precedenti! Papa Francesco ci invita a riflettere su come la pandemia ha toccato la nostra esperienza personale e ci sfida su che cosa possiamo fare concretamente per la pace nel mondo. Il messaggio ci interpella di fronte alle sfide e opportunità che ci presenta il nuovo anno. Il virus della disuguaglianza! La pandemia ha colpito i più deboli dell’assetto sociale ed economico, facendo emergere contraddizioni e disuguaglianze. Ha minacciato la sicurezza lavorativa di tanti e aggravato la solitudine dei più deboli e dei più poveri.L’isolamento, l’altro volto della pandemia! Il Covid-19 ha provocato un malessere nel cuore di tante persone e famiglie, con risvolti alimentati dall’isolamento e dalle pesanti limitazioni della libertà. Un’ opportunità di conversione! Questo è un momento opportuno per mettere in discussione, imparare, crescere e lasciarsi trasformare come individui e come comunità. Occorre però riscoprire la parola “insieme”.La speranza come guida alla pace! Insieme, nella fraternità e nella solidarietà costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi. Verso il “noi” come futuro migliore! La lezione più importante è che nessuno può salvarsi da solo. Non possiamo più pensare al nostro “io”, ma dobbiamo pensarci come un “noi” aperto alla fraternità globale. QUALCHE CITAZIONE SIGNIFICATIVA La via per costruire un mondo più giusto! Il testo papale invita a riconoscere che la pace è una grande opera collettiva di rimozione, giorno per giorno, di tutte le cause di conflitto. Ecco alcuni impegni concreti da assumere come singoli e come comunità:“Rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti, promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà, prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune, attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico, combattere il virus delle disuguaglianze, garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti”. “La guerra in Ucraina, insieme a tutti gli altri conflitti sparsi per il globo, rappresenta una sconfitta per l’umanità intera e non solo per le parti direttamente coinvolte. Mentre per il Covid- 19 si è trovato un vaccino, per la guerra ancora non ci sono trovate soluzioni adeguate. Certamente il virus della guerra è più difficile da sconfiggere di quelli che colpiscono l’organismo umano, perché esso non proviene dall’esterno, ma dall’interno del cuore umano, corrotto dal peccato”. “Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale”. “A tutti gli uomini e le donne di buona volontà auguro di costruire giorno per giorno, come artigiani di pace, un buon anno! Maria Immacolata, Madre di Gesù e Regina della Pace, interceda per noi e per il mondo intero”. Per un felice anno 2023! Don Francesco
"Sia segno della nostra partecipazione alla vita divina di Colui che ha voluto assumere la nostra natura umana". Sono le parole che, nel rito romano, il sacerdote dice all'offertorio nel momento in cui versa le poche gocce d'acqua nel calice del vino. Questo è il primo atteggiamento spirituale che dobbiamo avere quando ci rechiamo alla Messa domenicale: non siamo noi che andiamo a fare comunione con Gesù, ma è Lui che viene a fare comunione con noi. Tutto questo per ristabilire le priorità dell'azione di Dio nella vita della fede. Ne consegue lo stupore che deve animare l'animo cristiano che riconosce la precedenza dell'azione di Dio: noi, "povera argilla plasmata dalle sue mani", fatti come contenitori del suo spirito, aperti alla sua presenza e alla sua grazia. Ne consegue un secondo atteggiamento: la gioia. Quando usciamo di casa per andare a Messa come posso esprimere questo sentimento "Vado a incontrare il mio Dio"? E se sulla mia strada potessi incontrare altri credenti come me? Perché non accordarmi con loro sul fare insieme il tragitto, esprimendo anche sul volto la contentezza che porto dentro di me? Perché non fermarmi sul piazzale della chiesa, prima e dopo la celebrazione, con i fratelli nella fede e testimoniare ciò che cambia la nostra vita di uomini? Perché non cantare "pleno corde" durante la celebrazione la felicità che deriva dall'amore che Dio mi mostra? Siccome Dio è sempre rispettoso ed educato e non parla se parliamo noi, i silenzi che ci sono durante la celebrazione sono vissuti come da uno che si mette in ascolto della Parola di Dio o come un tempo che non so come riempire? "Non di solo pane vive l'uomo ma di ogni Parola che esce dalla bocca di Dio". Atteggiamento essenziale è questo avere l'orecchio attento ad un Dio che speso sussurra al credente. "Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta!". Dio, poi, è uno che capisce le cose più di quanto siamo capaci noi. La sobrietà deve essere una caratteristica della nostra preghiera. Lo raccomandava già il Signore Gesù, dicendo che non dobbiamo essere come gli Scribi e i Farisei che pensano di essere esauditi a forza di parole: Dio sa già di cosa hai bisogno; certe preghiere che sembrano sintesi di trattati di teologia o paiono volere suggerire a Dio le motivazioni del suo esaudirci non devono avere spazio nelle nostre liturgie. Un cuore da bambino, un cuore semplice che dice soltanto ciò di cui ha un bisogno essenziale, non rende la preghiera una invocazione infantile ma soltanto sincera. Tutto questo ci rende una vera comunità che ha compreso che la fede non è un fatto solo personale, come spesso pensiamo; non riguarda soltanto me, ma un intero popolo di cui sono parte viva e attiva, con cui faccio comunione perché Gesù mi ha fatto capire che soltanto così "se due o tre sono riuniti nel mio nome, là sì sono io". E questo rende "missionaria" ogni celebrazione perché mi obbliga a "portare fuori" quel Signore che mi ha incontrato. Dobbiamo smettere di pensare soltanto al "mio" Signore e iniziare a pensare al "nostro". Se viviamo la celebrazione domenicale con questi atteggiamenti allora dal popolo di Dio sale il vero ringraziamento, la vera Eucaristia che non potrà non rendere più gioioso il nostro volto e dare ai non credenti o non praticanti il desiderio di far parte di una comunità così serena e felice. Celebrazioni, dunque, piene di umiltà, di gioia, di silenzio attento e ascolto devoto, di fraternità e desiderio di comunicare ad altri la fede saranno la vera lode che sale a Dio dal popolo che gli appartiene. Don Felice
Ci è chiesto di sostare ancora sul ruolo di Giovanni il Battista; in questo primo capitolo del Vangelo di Giovanni (Gv 1, 6-8; 15-18), sembra che l’evangelista orienti la riflessione sul confronto tra luce e tenebra. Il ricordo del Precursore ci permette di concretizzare le indicazioni dei primi versetti; quasi a confermare che si sta parlando del Signore Gesù. Il Vangelo di Giovanni non parla della vita e delle scelte del Precursore. L’unica verità, che gli interessa promuovere, è la testimonianza che Giovanni rende a Gesù.Giovanni il Battista è inviato da Dio Padre; lui testimonia ed evidenzia la missione di Gesù. Precisa che non è lui a illuminare la storia: è Gesù di Nazareth. L’identità del Battista è descritta dal suo essere testimone. Di che cosa è segno Giovanni? Gesù è più giovane di lui; appare nel Vangelo dopo di lui. E tuttavia gli passa davanti. Come mai? Perché Gesù è nato storicamente dopo; preesisteva però accanto al Padre e allo Spirito. Il versetto 17 ci conferma che tra la legge, la grazia e la verità c’è differenza, ma anche continuità. La legge non termina di essere dono; non è assolutamente abolita. Gesù, però, porta qualcosa di nuovo. La legge è dono ma la grazia, l’amore abbondante e misericordioso del Signore, la verità sono l’evento introdotto dall’amore e dalla sapienza di Gesù. Egli non solo annuncia la grazia ma incarna i valori del Vangelo; nella sua vita diventano un’evidenza leggibile e percepibile da tutte le persone che sono interessate alla sua presenza nella storia. Giovanni è figura dei sapienti e dei profeti che, ovunque e sempre, hanno risvegliato i fratelli alla luce offerta dal Signore. In nessuna epoca e in nessuna parte del mondo sono mancati e mancheranno uomini liberi e illuminati, che sono come dei fari nella notte. Il fine della loro testimonianza è che “tutti” riconoscano la luce della vita ed entrino nel misterioso dialogo con Dio che li porta a vivere la verità. Diversamente, anche se la tenebra non arresta la luce, si rischia un’esistenza spenta e crepuscolare, che tende alla morte. Viene anche sottolineato che i sapienti e i profeti, di Israele e di tutti i popoli, non sono la luce: sono illuminati dalla Parola e la testimoniano agli altri, affinché tutti accolgano la luce della vita. Una persona, anche se sapiente, se si crede luce, è nella notte più profonda. Don Michele
“Doveva passare la Samaria”, di per sé non era necessario, poteva seguire la via normale della Transgiordania evitando questa terra considerata infedele. La Samaria si era separata da Israele ai tempi di Geroboamo, nel 930 a.C.. Era un popolo poco considerato dagli israeliti. Gesù invece guarda a questa regione, evidenzia il comportamento virtuoso di alcune persone di quei luoghi: il buon samaritano (Lc 10,29-37), il ringraziamento di uno dei dieci lebbrosi guariti (“era samaritano”) (Lc 17,11-19), questa donna samaritana (Gv 4,5-42)... Ha a cuore la loro evangelizzazione. “Se tu conoscessi il dono di Dio” dice Gesù alla donna samaritana. Le chiede: ”Dammi da bere”; lei stessa ha sete di qualcosa che doni miglior senso alla sua umanità. Si sta parlando di “un’acqua viva”: dell’amore del Padre e del Figlio, che Gesù ha sete di donare a ogni sorella, a ogni fratello. Nel Vangelo di Giovanni, dopo l’incontro e la chiamata dei primi discepoli, dopo l’incontro, di notte, con il dottore della legge, Nicodemo, c’è questo dialogo con la donna della Samaria.È l’indicazione chiara che nel pensiero di Gesù, il Vangelo deve essere annunciato a tutti, a chi diventerà familiare di Gesù; a chi ha sempre accolto nella sua vita i dettami della Torah; agli uomini e alle donne che hanno un preciso percorso di fede; ma anche a chi non conosce il Padre. Se Nicodemo e, parzialmente, gli apostoli, rappresentano l’itinerario tipico del popolo d’Israele, la donna evidenzia quello più universale, che parte dalla “sete” comune di tutti e “acqua” che appaga. Anche chi conosce la legge e la profezia approda a Dio solo se dà concretezza alla sete dei suoi desideri più profondi. Dopo il prologo, dove si tesse la lode della Parola (1,1-18), protagonista di fondo del racconto evangelico è l’acqua. Ci sono però acque diverse; c’è quella stagnante che non disseta e non dà freschezza; c’è quella che zampilla, che è mossa dall’amore, che dona frutti anche per la vita eterna. Nei primi capitoli del 4° Vangelo c’è l’acqua del Battesimo proposto da Giovanni il Battista; c’è l’acqua del Giordano in cui Gesù si immerge per il Battesimo di penitenza; c’è l’acqua per la purificazione nelle sei anfore delle nozze di Cana; c’è la nascita dall’acqua e dallo Spirito nel dialogo con Nicodemo; c’è l’acqua che disseta per tutta la vita nel colloquio con la samaritana. Là dove, nella quotidianità, attingiamo acqua da Gesù, che è la fonte che disseta, rinfresca e purifica dalle nostre incrostazioni, dalle nostre fragilità, là noi viviamo una reale profondità di sequela; non si resta alla superficie della “buona notizia” del Vangelo; si coglie e si vive l’essenziale. Il racconto è un dialogo tra la Parola e l’ascoltatore; quindi, è un confronto da attuare anche da ciascuno di noi. In alcuni momenti della nostra vita possiamo muovere i nostri passi verso dei rivoli periferici; gradatamente ci si allontana dalla sorgente. È l’incontro con Gesù che cambia la vita; è il permettere a Lui di parlare al profondo del nostro cuore e di dissetare la nostra sete di verità e di amore. La Quaresima è “momento favorevole” per dare determinazione a pensieri e scelte che diano qualità alla nostra esperienza spirituale. Don Peppino
Nel 1864, in appendice all’enciclica di Pio IX “Quanta cura”, si fece l’elenco dei “principali errori della nostra epoca”. In maniera decisa si condannò la tesi: “Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna città venire a patti e conciliazioni”. Era una scelta che tendeva ad escludere un’eventuale apertura a tutte le forme della modernità; andava sviluppato un discernimento; era opportuno non assumere acriticamente le tesi più fragili e meno in linea con il pensiero della Chiesa. Certo al di là delle intenzioni, spesso questa dichiarazione diventò il riferimento per la bocciatura di tutto ciò che era innovativo. Nel 1965, passati più di cento anni, la Costituzione pastorale “Gaudium et spes” del Concilio Vaticano II mutava chiaramente l’approccio alla modernità. La Chiesa dichiarava la sua scelta di voler partecipare pienamente alla vita e alla storia degli uomini, alle loro gioie, alle loro attese, alle loro intuizioni; e questo senza rinunciare a dichiarare la propria estraneità e la propria diffida rispetto ai movimenti di pensiero e a scelte conseguenti che non mettevano l’uomo e il rispetto di Dio come riferimento alto del proprio agire. L’intenzione, però, era molto chiara: era decisivo cercare di comprendere sempre tutto ciò che innovava usi e costumi, avendo l’intenzione di apprezzare e di valorizzare quanto di buono si proponeva; le eventuali prese di distanza dovevano sempre essere percepite all’interno di un sincero amore per l’umanità e per la storia degli uomini. Eventi drammatici hanno attraversato anche questi ultimi anni: la guerra in Ucraina, ad esempio, ha evidenziato grandissime differenze di pensiero, anche tra Chiese che si riferiscono allo stesso Signore Gesù. Rischiamo di sentirci impotenti rispetto alla complessità dei processi in atto. Tutto questo ci può indurre a un senso di sgomento di fronte alla difficoltà a reggere le sfide poste dalla modernità. La nostra vita sociale però è luogo di una possibile convivenza virtuosa che si costruisce continuamente, anche a partire dal nuovo e dal diverso; la vita sociale, che accompagna i nostri giorni, ci propone il coordinamento di due tensioni che arricchiscono e rallegrano la vita dell’uomo: la fatica all’apertura e la serenità data dal riconoscerci capaci di un identico cammino. S. Ambrogio le caratterizzava così: “è fondamentale cercare sempre il nuovo e custodire sapientemente ciò che si è conseguito” (“De Paradiso” 4, 25). Certo noi percepiamo chiaramente la fatica di costruire positivamente una cultura nuova di fraternità. Ci sono comunque esperienze molto positive e intense a questo riguardo. Personalmente conosco bene e apprezzo l’esperienza di fraternità ecumenica proposta e vissuta nel Monastero di Bose. L’apertura al nuovo, l’apertura all’altro non è solo questione di un buon cuore, di buoni sentimenti; è la promozione di una capacità di integrazione, che rifugge dai soli principi; è imprescindibile per una comunità cristiana. Va coniugato con profonda libertà interiore e la determinazione che non ci rende spettatori passivi di una società che muta e che, a volte, sembra allontanarsi dai principi che sorreggono la nostra vita. Noi scegliamo di promuovere spazi ed esperienze di confronto e di dialogo. Don Peppino
Perché una affermazione che sembra assurda? Noi dobbiamo comprendere che celebriamo sempre l'atto salvifico con cui il Signore Gesù è venuto a riconciliarci con il Padre nella remissione dei peccati: cioè la sua morte e risurrezione. Non per nulla nelle rappresentazioni del Natale delle chiese di Oriente Gesù non è posto in una mangiatoia ma in un piccolo sarcofago, a prefigurare la sua morte redentrice. Anche per questo la liturgia ambrosiana pone nella quarta domenica di Avvento (una volta era nella seconda) l'episodio dell'ingresso di Gesù a Gerusalemme, al termine dei suoi lunghi pellegrinaggi sulla terra della Palestina, quasi ad indicarci il termine della sua missione: siamo infatti, cronologicamente, all'inizio dell'ultima settimana di vita del Signore Gesù. Egli giunge e a Gerusalemme, nel luogo del Tempio, dove offrire la propria vita per la nuova ed eterna alleanza. Vi fa il suo ingresso in modo che si ricordi l'episodio della intronizzazione di Salomone, successore e figlio di Davide, come re di Israele: "Principe di pace" come Isaia aveva voluto chiamare il Germoglio che spunterà dalla radice di Iesse. Anche noi attendiamo il ritorno finale del Signore, quando porrà il punto fermo alla storia della umanità, finalmente redenta in modo pieno della sua schiavitù nel male nel peccato. Noi non siamo in camino verso il nulla ma verso un destino glorioso che passa, sì, attraverso la sofferenza ma arriva alla gloria. Gesù compie questo gesto a dorso di un'asina e del suo puledro, cavalcature dei tempi di pace e dei lavori quotidiani: Gesù fa guerra solo al Maligno, al male e al peccato, ma è pieno di mitezza per i suoi fratelli, quelli che il Padre gli ha dato. Nella vita di ogni giorno si compie il progetto di salvezza che Dio ha per l'uomo. Deve esserci, perciò, assieme alla gioia della gente che accompagna Gesù, anche tutto il nostro entusiasmo per quella venuta tra noi che si è compiuta nella storia passata e si rinnoverà al termine della vicenda umana, il giorno del ritorno finale di Cristo. I rami di palma e di ulivo sono gli stessi che dovevano ombreggiare la "Via Santa" del ritorno degli esiliati in Babilonia. Noi allontanati dal giardino dell'Eden a causa del peccato, ora possiamo camminare su questa via diritta ed ombrosa su cui Gesù ci precede nel nostro ritorno al Padre. Ci sono anche i mantelli della carità da stendere sulla strada del nostro rientro nella casa del Padre, come ci verrà detto dall'episodio di Maria, nella casa di Lazzaro, perché i "poveri li avrete sempre con voi". Il prossimo Natale non ci veda soltanto impegnati nei cenoni e nei doni da fare a coloro che ci sono vicini, quanto piuttosto in gesti di fraternità e solidarietà con i più bisognosi. E il Natale di Gesù ci aiuti a comprendere che Dio non vuole salvare il mondo a prescindere dal nostro contributo. ma vuole che offriamo il nostro dorso e le nostre spalle al Signore Gesù come questa asina e il suo puledro perché "il Maestro ne ha bisogno". Questo è il Natale che diventa Pasqua nel Signore, dove ciascuno di noi si fa, assieme a Cristo, offerta viva al Dio misericordioso che "tanto ha amato il mondo da dare il Suo Figlio a morire per noi". Don Felice